giovedì 5 agosto 2010

Jakbyś kamień jadła

Provo a tradurre un testo di OLGA TOKARCZUK,
in cui presenta Jakbyś kamień jadła, un testo di Tochman che uscirà in Italia ad ottobre per Keller Editore
In anticipo mi scuso per possibili errori fatti del tutto in buona fede.

È estate, agosto. Arrivano con la posta i libri manoscritti. Inizio a leggere, li rimetto via, non voglio pensarci, preferisco dedicarmi alle mie cose, ma di sera torno nuovamente al manoscritto.
Avrei preferito che non venisse scritto un libro così. Le sue recensioni arrivano sulle riviste colorate, tra la pubblicità delle creme, nel bel mezzo di consigli di depilazione e offerte dell’ultimo minuto. Lascio il manoscritto sul terrazzo, il vento ne spiega le pagine e a dir la verità son contenta che si perdano e che io non debba più leggerlo. Ma ecco che torno a leggere. Le persone – eroi di questa storia – non mi permettono di abbandonare.

Nel libro appaiono delle date. Giugno, 6 agosto, 24 luglio anno 1992. mi soffermo un attimo. Nella notte inizio a frugare nei vecchi calendari e dopo un attimo sono in grado di riconoscere. 24 giugno ’92 ho provato a pianificare il giorno. È una lista della spesa. I preparativi della partenza per le vacanze. Inizio agosto ’92 – viaggio sul mar Nero. Sembra un piccolo punto di contatto – siamo passati, quella volta, attraverso Wojewdin e i villaggi, nei frutteti c’erano carri armati. Sapevamo che lì c’era la guerra, da qualche parte nel sud-ovest. Eravamo convinti che fosse già la fine del conflitto, che tutto andasse ormai per il meglio. Dopo, per tutto agosto siamo rimasti sdraiati sulla spiaggia, la sera giocavamo a carte. 11 luglio 95 – il giorno del mio santo. Organizzo la festa.

Quando penso alla guerra mi viene in mente quella mondiale. E subito dopo la rassicurante consapevolezza che quel mondo non esiste più e grazie a questo posso permettermi un po’ di distanza. Non ero là, non devo sentirmi colpevole. Posso leggere Hannah Arendt e discuterne i meccanismi. Meccanismi – una buona parola per indicare il movimento inevitabile di forze su cui non si ha potere. Meccanismi politici, economici, psicologici che costituiscono ciò che succede. Sono al di sopra dell’uomo.

Credo: alcune cose non possono ripetersi; non possono perchè sappiamo più cose, possiamo più cose, il mondo è diverso, i tempi sono diversi.

Nella notte prendo la macchina da scrivere (o il manoscritto?) e vi scrivo delle date:
W nocy biorę maszynopis i wypisuję z niego daty:
10 giugno 92 – prima pulizia etnica, assassinio dei Mussulmani

24 luglio 92 – gli autobus portano allo scambio le donne allo scambio del campo, ma non si va verso alcuno scambio; tutti vengono uccisi, e i loro corpi gettati nelle fosse comuni.

6 agosto 92 – uccisione nel campo di Omarskiej


Mi chiedo se ci sia qualcosa che potrebbe giustificarci, toglierci il peso del senso di colpa e della vergogna. L’ignoranza? Una distanza nel tempo, nello spazio? La sensazione d’impotenza? Che il male c’era, c’è e ci sarà?
W.T. nel libro, dal quale provo a difendermi, descrive il „tempo dopo”. Il talento dell’autore e la sua sensibilità fanno in modo che questo documento abbia la portata di un messaggio in movimento.
È l’anno 2002, da molto tempo sono stati firmati gli accordi di pace di Dayton, secondo cui la conformazione di Bosnia Erzegovina è multietnica. L’ordine è mantenuto da forze internazionali, le vedove e gli orfani vengono risarciti. S’invitano le persone a tornare nelle loro case.
Le equipe di antropologi dissotterrano un’intero insieme di fosse, e provano con macabri puzzle a rimettere assieme le ossa delle peersone, per identificare le vittime con l’aiuto dei più nuove tecniche mediche. Quelli che hanno ucciso e le famiglie delle vittime vivono nella stessa via. Spesso conoscono i loro cognomi, i loro visi. Regnano disoccupazione e un’enorme emigrazione. Le persone si sentono stordite. Nello stesso momento, nel mondo, parte un nuovo conflitto. Una nuova guerra occupa la prima pagine del giornale.
Anch’io faccio parte di quella „condizione dopo”. La guerra in Jugoslavia è stata per me scioccante, un adolescenza in ritardo. Con incredulità leggevo i giornali. La parola “campo di concentramento” compariva come il ritorno di un incubo, ma scrivevano che stava succedendo Adesso e Qui, a qualche centinaio di chilometri da qui.
Ci siamo abbandonati nello stato di shock e da questo punto di vista quella guerra non si è ancora conclusa. Non c’è per lei una fine, nemmeno se vengono portate alla luce tutte le ossa e identificate tutte le vittime e nemmeno se ci affidiamo ai più innovativi meccanismi di difesa, per tentare di dimenticare.

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